L’edizione di Leone Ginzburg dei Canti (1938)

Recensione a Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Leone Ginzburg (Bari, Laterza, 1938), «Leonardo», a. IX, n. 4, Roma, aprile 1938, pp. 147-148.

L’EDIZIONE DI LEONE GINZBURG DEI CANTI

Nella collezione degli Scrittori d’Italia, dopo l’opera del Moroncini, l’edizione del Donati era divenuta inutile: la presente edizione, dovuta a Leone Ginzburg, colma questa lacuna, approfittando degli accertamenti moronciniani ed anzi migliorandoli per quanto era possibile.

Il volume contiene i quarantuno canti con le note del Leopardi. In appendice figurano I nuovi credenti, le dediche, notizie preliminari e annotazioni del Leopardi, e in fine le varianti. Una finale Nota del Ginzburg ci prospetta la descrizione delle edizioni dei Canti fino a quella del Piatti del 1836 e la storia delle edizioni alla morte del poeta, per le quali questi dette le sue correzioni al Ranieri. Fallita l’edizione Baudry, progettata dal De Sinner e vagheggiata dal Leopardi, il Ranieri fondò la propria edizione lemonnieriana su di una copia della Starita corretta. Il Moroncini, dopo la scoperta delle carte napoletane, accertava come piú vicino all’ultima intenzione del Leopardi l’esemplare della Starita corretta dal poeta stesso, e dal Ranieri sotto la sua direzione, conservata nella Nazionale di Napoli. È naturalmente su questo esemplare che si fonda l’edizione del Ginzburg.

In che cosa la cura attenta del Ginzburg ci sembra un progresso rispetto all’edizione fondamentale del Moroncini? Per una maggiore finezza estetica inevitabilmente coincidente con un maggiore rigore filologico che può interpretare, ad es., il senso che aveva il Leopardi della punteggiatura: «I criteri ortografici cui si era ridotto da ultimo il Leopardi, nel suo desiderio di essere semplice e di non sovraccaricare la pagina, erano cosí sottilmente ragionati, e nello stesso tempo cosí vicini ai nostri, che era naturale cercare di trasporre se mai, quei segni in altri piú familiari ai lettori di questa raccolta, e non di aggiungerne dei nuovi senza necessità» (p. 263). O varianti eufoniche cui la certezza del gusto leopardiano assicura la vera lezione (es. p. 265, proprio e propio). I criteri che hanno guidato il Ginzburg nella riproduzione delle varianti ci convincono invece solo in parte. Ottimo il criterio di insistere sulle varianti di interpunzione «che possono anche indicare dei mutamenti intervenuti nella pausa del verso» (p. 269), ma escludere senz’altro le varianti degli autografi ci sembra piuttosto criterio di semplificazione pratica che non risultato di una costatazione assolutamente valevole. Dice il Ginzburg, rifacendosi al Debenedetti, dei ‘frammenti autografi dell’Ariosto’: «le varianti dei manoscritti, anche se suggestive, sono altra cosa, in quanto non ci si può render conto, assai spesso, dell’effettiva importanza che ogni mutamento ebbe per l’autore, né riconoscere quel che non è vissuto piú dell’attimo necessario a segnarlo sulla carta» (p. 270). Se la considerazione è giusta in quanto la correzione accettata è presumibilmente piú calcolata, pesata, non si può escludere che la correzione autografa, poi abbandonata, segni un momento del gusto del poeta temporalmente mal definibile, e che per lo studio della formazione delle lezioni gradualmente definitive siano indispensabili le correzioni intermedie e che a volte il valore di una particolare variante superi il posto che occupa nello sviluppo di quella data lezione. Voglio dire che non si può tassativamente negare l’utilità delle varianti autografe allo studio di un poeta e massime allo studio della sua poetica.

In fondo al volume troviamo «Notizie e congetture cronologiche», una lista cioè dei canti con vicino la presumibile data di composizione (in questa lista manca, per un’evidente svista tipografica, il canto XXVI, cioè il Pensiero dominante, composto certo nel periodo fiorentino).

Per il Tramonto della luna, si riferisce la correzione all’opinione corrente secondo cui i sei ultimi versi sarebbero stati le ultime parole scritte dal Leopardi: questi invece non li compose allora, ma li tracciò materialmente per darli come ricordo allo Scultz.